HANNO DETTO
Maldini a Radio Serie A: «Io CUSTODE del Milanismo? Non lo so, ma la storia va rispettata. Mai in un altro club, sugli inizi da dirigente…»
Paolo Maldini, leggenda del Milan, si è raccontato a Radio Serie A: tante le tematiche affrontate dall’ex DT rossonero
Paolo Maldini, leggenda del Milan, si è raccontato a Radio Tv Serie A. Le sue dichiarazioni:
MILAN – «Il calcio è sempre stato presente. Il Milan è sempre stata la squadra della mia città, l’aMbiente dove sono cresciuto e per me è qualcosa che va al di là del tifo e del lavoro. È sempre stato così e sarà sempre così. Il rapporto che c’è va al di là delle ere in cui sono passato in questa grande società e sarà così anche per i miei figli».
CIMELI – «Ho recentemente, durante la pandemia, allestito un palchetto con le medaglie che avevo nei cassetti. Primo e secondo anno di Serie A ho fatto una collezione di maglie bellissime. Poi ho smesso e non so neanche perché. All’inizio avevo 17 anni e non sapevo se sarebbe andata bene, poi quando l’ho capito ho regalato diversi cimeli come le maglie di Maradona, Platini».
MALDINI – «Io mi considero semplicemente Paolo. Cerco di fare la mia traiettoria di vita. Ringrazio la famiglia che ho avuto, ho incontrato le persone giuste. Anche la mia ultima esperienza da dirigente mi ha fatto apprezzare le cose che non conoscevo. Nel calcio uno pensa di saper tutto, ma quando passi dall’altra parte hai una prospettiva completamente diversa. Cose che ho dichiarato da calciatore, poi passando dirigente le avrei volute cancellare».
MILANISMO – «Custode del milanismo? Non lo so, lo possono dire gli altri. Di sicuro il calcio e il Milan mi hanno insegnato tanto come valori e come principi e quando lavori per questo club ne devi tenere conto perché va al di là del risultato. quando si parla di una storia ultra centenaria, va conosciuta e studiata. 20 anni fatti con me? Sono contento, ma la mia storia parte negli anni 50 con mio papà e oggi sta andando avanti ancora perché Daniel è ancora sotto contratto».
FIGLI CALCIATORI – «Purtroppo per Daniel è un destitno al quale non si scappa. Loro erano innamorati di questo sport e nei primi anni la cosa che vuoi fare da ragazzo è divertirti e quando ci sono tanti aspettative si perdono un po’. Lui sapeva avendo visto me a cosa andava incontro. Loro si sono divertiti e fanno tutto con passione. Lo sport è democratico e va avanti solo chi ha valori. Alzare la coppa come me e mio padre? Deve essere un’ambizione, non una pressione».
RESPONSABILITA’ – «Io non sento la responsabilità. Certo quando sei all’interno della società il ruolo te lo impone. Ma per il resto mi sento solo Paolo, non solo il milanista. Io non ho mai scisso il calciatore e l’uomo e la gente mi apprezza per questo. È questione di disciplina».
TIFO PER LA JUVE – «A me piaceva il calcio, sapevo del passato di mio papà e avevo capito cosa aveva fatto, ma la prima competizione che ho visto da amante del calcio era il Mondiale del ’78 che praticamente era la Juventus più Antognoni. Quindi ho seguito la Juventus come se fosse la Nazionale, ma poi ho fatto il provino per il Milan e lì è iniziata la mia storia».
QUARTO FIGLIO – «In genere partitre indietro nelle gerarchie in famiglia è sempre meglio, perché gli errori che fai coi primi non li fai coi secondi figli. Poi per me era differente perché le prime 3 erano femmine quindi io ero il primo figlio maschio e non è stato semplice dovevo sfogare le energie. Si viveva molto per strada all’epoca e si imparano tante cose e tante lezioni, ma sono stato bravo a gestirmi. La strada ti insegna a tenere aperti gli occhi».
MILANO DA BERE – «La Milano da bere? È stato un bel periodo perché è stato quello in cui sono arrivato in Serie A. Poi era un periodo importante per la vita, era una Milano bella da vivere perché al futuro si guardava sorridendo. Conobbi Armani, Versace e il presidente Berlusconi che ha cambiato la nostra vita».
MILANO – «Il milanese si senta perfetto per Milano perché ti lascia vivere e camminare. Non è una città che la vedi e dici wow che bella. Non è una grande città, va scoperta, ti fa innamorare piano piano. Vedo in Milano tante caratteristiche che sono mie. Io sono discreto e riservato e rivedo Milano in questa cosa. Poi a Milano ho trovato la famiglia e la possibilità di giocare in una squadra con le stesse mie ambizioni. Senza Berlusconi sarei andato probabilmente altrove. Il posto preferito? Casa. Ma mi piace andare in zone tipo Brera».
PROVINO – «Mi ricordo bene che il provino si poteva fare solo dopo i 10 anni. Prima avevo giocato solo ai giardini e all’oratorio. Non avevo mai giocato a 11 in un campo regolare. Io non lo sapevo, perché ai giardini giocavi ovunque. Chiesi quale ruolo fosse disponibile, mi dissero “ala destra” e allora risposi va bene. Alla fine del provino mi fecero firmare il cartellino sul campo. I primi due anni ho fatto ala destra, ala sinistra alternati. Poi verso i 14 anni mi hanno spostato terzino e quando ho compiuto 16 anni ho fatto il primo ritiro insieme ad altri ragazzi con Liedholm. In quella Primavera c’era tantissimo talento, Costacurta, Stroppa, Ferron… Quel provino è l’inizio della mia storia col Milan, fino a quel momento lì ero legato al Milan per quanto fatto da mio papà».
RUOLO – «Il ruolo di ala mi piaceva, mi piaceva dribblare e attaccare. Finché sei piccolo puoi sviluppare tutto, la prima tattica l’ho fatta in prima squadra, da piccolo c’era solo l’1 contro 1 in attacco e in difesa e se non li impari in quegli anni lì non li apprendi più. La strada, i giardini, mi hanno insegnato tantissimo. Il timing che avevo sulla palla era dovuto non solo dalle caratteristiche personali, ma anche da tutti quei rimbalzi che ho visto su tutti quei campetti irregolari. C’è sempre tempo per imparare la tattica, sempre meno la tecnica, anche in marcatura eh… Una volta ho visto, quando Daniel ha iniziato a giocare e aveva 7 anni, per un anno ha fatto solo dribbling e uno contro uno. E mi sono detto: “lui è intelligente, va insegnata”. Si divertiva lui, ma anche il difensore. Quella capacità di non avere paura di tenere il pallone ed essere pressato è fondamentale anche per i difensori».
ESORDIO – «Liedholm mi disse “Malda entri”, mi chiese se volessi giocare a destra o sinistra e risposti “come vuole lei”. Il campo era bruttissimo, ma per me è stato magnifico. Si, sono legato moralmente dentro di me alle relazioni con le persone più che ai momenti in sé. La cosa bella è che devi condividere con altre persone gioie e dolori. Liedholm mi ha insegnato a giocare a calcio. Lui mi ha sempre detto che per giocare a calcio devi divertirti».
CALCIATORI DI OGGI – «C’è una competizione con gli altri pazzesca, in tanti ci provano e il 98% fallisce. È dura, ma è anche bella. Ognuno alla propria maniera, ogni calciatore sa che è passione e gioia».
COSA GLI HA TOLTO IL CALCIO – «Mi ha tolto magari un pezzo di gioventù quando magari da ragazzo non uscivo mai perché dovevo giocare. Ma non si può dire che mi abbia tolto qualcosa. Lì è iniziata la mia disciplina, è stata una mia scelta e mi ha dato tantissimo. Una cosa che mi ha tolto è la mia integrità fisica. A 41 anni ho giocato per 3 anni con gli amici, ma oggi calciare un pallone mi fa male, potrebbe essere pericolosissimo. Giocare a tennis non mi fa così male».
BERLUSCONI – «Ha portato un’idea moderna e visionaria non solo del calcio ma del mondo. Il primo discorso nella sala pranzo a Milanello ci disse che voleva che la nostra squadra giocasse il più bel calcio del mondo, lo stesso in casa e in trasferta, e che presto saremmo diventati campioni del mondo. Dall’anno dopo, perché il primo è entrato in corsa, è cambiato tutto. Ha preso preparatori, costruito strutture per competere con i top al mondo. C’è sempre tanta diffidenza per l’imprenditore che entra nel calcio. Sacchi poteva creare e ha creato qualche dubbio, ma poi abbiamo capito i grandi vantaggi. La sua impronta è ovunque. A me piaceva molto la sua idea di cercare di giocar bene, cercare di vincere e rispettare l’avversario. Lui diceva che se non vince il Milan, mi fa piacere che vinca l’Inter. Naturalmente c’è rivalità, ma l’idea di essere onesto e arrivare al risultato attraverso il sacrificio e complimentarsi con un avversario se è più bravo di te è un insegnamento. Non si è mai logorato quel rapporto, facevamo tante battute, sono diventato amico di PierSilvio e lui mi ha sempre trattato come secondo padre. Quando è stato ricoverato in ospedale mi ha chiamato perché voleva fare degli scambi Milan-Monza ed è stato divertente. Il calcio lo ha accompagnato fino all’ultimo momento e questo si sente e si trasmette a tutti, ambiente, città, luoghi e persone».
SACCHI – «Noi ci siamo messi a disposizione di Sacchi, ma è stato durissimo fisicamente e mentalmente. C’era conoscenza, ma non ancora abbastanza. Io sono andato in overtraining di continuo per mesi allora. Si doveva ancora calibrare. I giovani hanno meno stabilità di performance e c’erano un sacco di alti e bassi e dentro di te ti chiedi se stavi facendo bene o no. L’adattamento piano piano è arrivato. Io spesso arrivavo al venerdì e mi dicevo: “ma come faccio a giocare domenica?”. Tutto questo però ha alzato il livello, l’abbiamo capito dopo un mese e mezzo, quando abbiamo vinto a Verona sentendo nelle gambe qualcosa di diverso. Non c’era nessuna corrente contro di lui, era solo duro adattarsi».
SQUADRA VINCENTE – «Il Milan di quegli anni aveva comunque una grandissima squadra e la difesa migliore del mondo già lì pronta fatta e finita. Quando trovi una persona così esigente che deve gestire un gruppo è un progetto che ha una scadenza. Quando vivi in un modo così ossessionato non duri a lungo. Se sto parlando di Conte? No, ma è così anche per lui, se senti parlare i suoi giocatori te lo dicono».
CAPELLO – «Era un giocatore in panchina. Ti diceva sempre qualcosa da fare in campo durante l’allenamento. Ha proseguito il lavoro di Sacchi rallentando però il ritmo e avevamo 25 giocatori di altissimo livello, ma ha aggiunto un minimo di praticità ad un concetto utopistico come quello di Sacchi. Liedholm, Sacchi, Capello in quest’ordine è stata una fortuna».
FASCIA DI CAPITANO – «Ero capitano della nazionale già da 3 anni ed ero abituato. Farlo nel Milan era qualcosa di diverso ed era un momento difficile per il club, ma è stato bello. Parlavo poco, ero molto riservato, ma il ruolo lo imponte e devi imparare».
COPPA PIU’ BELLA – «Sono tutte belle, sicuramente la prima da 20enne rimane impressa. La fortuna però è che sono state vinte in 20 anni. Quella di Manchester dopo 9 anni che non vincevamo era quella più ambita da capitano».
ANCELOTTI ALLENATORE – «Ci si comporta in maniera naturale. Lo chiamavo mister o Carlo. C’era un rapporto tale per cui non c’era bisogno di dire tante cose, le cose vengono naturali. Fa vedere che è la persona più tranquilla del mondo. Prima delle partite importanti si sedeva e mi diceva che mi guardava e si sentiva rilassato. E io rispondevo che la stessa cosa era per me».
CALCIATORE PIU FORTE CON CUI HA GIOCATO – «Non posso dirtene solo uno. Come forza morale e caratteristiche difensive, Baresi era un giocatore pazzesco, era perfetto. Ho avuto la fortuna di giocare con Van Basten, giocatore incredibile. Tanti giocatori non sono arrivati in momenti idilliaci: Ronaldo e Ronaldinho tecnicamente erano fortissimi».
GIOCATORE PIU’ FORTE AFFRONTATO – «Ronaldo dell’Inter. Mi piaceva fare uno contro uno ma con lui era dura: non si fermava, anche se le regole erano più permissive. Ma lui era grosso, veloce e tecnico… Molto difficile».
IPOTESI DI ADDIO AL MILAN – «No, solo momenti delicati all’interno del mio club. Le cose non andavano bene e c’era amarezza da parte mia. Ma questo mi porta a cercare di migliorare la situazione. In quegli anni lì il Milan era la squadra di riferimento».
PALLONE D’ORO – «Una cosa giornalistica. Come posso pensare che ci sia un’ingiustizia della mia carriera. Non ho mai vinto neanche un Mondiale o un Europeo. Per me la certificazione sono altre cose».
IL PIU’ PERDENTE DI SEMPRE – «Nasce da un discorso più ampio. Ma c’è un fondo di verità: le vittorie passano attraverso le sconfitte. Recentemente ho visto che ho perso otto e nove finali, sono tante. Questa cosa si può dire anche per Federer».
ISTANBUL FERITA APERTA – «No, basta. Dopo Istanbul c’è sempre Atene. Anche lì il calcio ti insegna tante cose che ti porti nella vita. Mondiale 2006? Ho giocato quattro Mondiali… Vedevo che facevo fatica e volevo preservare gli ultimi anni e non volevo essere un peso, avevo già detto di no a Trapattoni per l’Europeo del 2004».
ESORDIO DA DIRIGENTE – «Mi hanno chiamato, non sempre è ben chiaro quello che volevo fare. Ma è chiaro quello che non volevo fare: allenatore, lavorare in televisione… Quando è arrivata l’opportunità – era arrivata anche prima ma grazie a Dio l’ho analizzata bene (cinesi, ndr) – con Leonardo è stato perché ho lavorato con una persona che aveva gli stessi ideali. Ho deciso perché era il Milan. Poi ho avuto tante esperienze, di cose da raccontare e da insegnare. Poi c’è il lavoro in sè che è tutt’altro da quello che ti aspetti: c’è anche un periodo di adattamento che è durato 10 mesi».
FUTURO – «Una regola che vale soprattutto per l’Italia. Vedermi all’interno di un club diverso dal Milan non ce la faccio, non ce la farei. Non ho mai detto di no a nessuno. Sono stato due o tre volte da Nasser Al-Khelaifi al Psg prima del Milan ma non è andata bene e pensandoci oggi è stata una fortuna. I miei primi 10 mesi da dirigente al Milan sono stati di apprendimento, mi sentivo inadeguato. Non riuscivo a determinare qualcosa, Leonardo rideva perché glielo dicevi ogni giorno. Per me è stata una fortuna».
PRESENZA A SAN SIRO – «No, è logico. Seguo il Milan, il Monza».
GIOCATORE CHE PIU’ LO EMOZIONA – «Tutti. E’ una questione di relazioni. Abbiamo creato un sacco di relazioni con i giocatori che sono arrivati, non solo una squadra vincente. Quando vedo la fascia sinistra del Milan è uno spettacolo».
INTER – «Ha una struttura sportiva che determina il futuro dell’area sportiva, è stata gratificata con contratti a lunga scadenza. C’è stata una strategia. Non è un caso che il Napoli sia andato male con l’addio dell’allenatore e del direttore sportivo. I giocatori devono avere dietro qualcosa o qualcuno che li aiuti a produrre. Hanno bisogno di supporto».
LE BANDIERE FANNO PAURA – «A volte sì, ma a volte non è detto che avere un grande passato da calciatore ti debba dare un presente da dirigente, sono due lavori differenti. Quando mi hanno chiamato ho chiesto se fossero sicuri».