2014
Lettera aperta a Clark Kent
Caro Clark,
Hai taciuto lo sgomento: “La squadra ha dato tutto quello che aveva. Il Milan ha fatto tante cose positive, ricordiamoci che partiamo da un ottavo posto”.
Ti sei assunto le tue responsabilità: “Non mi piace dare colpe a nessuno. Il responsabile nel bene e soprattuto nel male deve essere l’allenatore” come una sorta di confessione spontanea a protezione di un familiare.
Ripeti in continuazione di non dover correre, di non illudersi perché si viene da un campionato fallimentare: come se quella fosse la prassi mentre l’oggi, 16 punti in 10 partite, una “piacevole” eccezione.
Lamentarsi dei risultati è svilente, inutile e non costruttivo e per questo non lo farò. Ma delle tue parole sì, Pippo.
Hai sgomitato nelle aree di mezzo mondo per ritagliarti un posto nella leggenda; hai smussato la visione ottusa degli scettici allargando le tue spalle ricurve fino a diventare ali spiegate.
Oggi invece le spalle sembrano richiudersi verso il tuo minuto petto, quasi a voler proteggerti dalle avversità che non puoi più addomesticare in calzoncini e maglietta. Come un Clark Kent qualunque che ha dimenticato di essere (o esser stato) Superman.
Non prendere questa lettera come una critica fine a sé stessa perché non lo è, non è il mio intento. Giudica, piuttosto, queste parole per quello che sono veramente: l’ammissione di una paura.
La paura di un uomo qualunque che teme di non poter più credere nei Supereroi.