Maldini RACCONTA: «Così ho gestito la pressione»
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Maldini RACCONTA: «Così ho gestito la pressione di avere come allenatore mio padre, le differenze rispetto al calcio di oggi…»

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L’ex dirigente e capitano del Milan, Paolo Maldini, è tornato a parlare dei suoi anni vissuti in rossonero prima sul campo e poi fuori

Arrivano altre dichiarazioni rilasciate da Paolo Maldini nel podcast AKOS di Luca Gemignani. Le sue parole dal ruolo di calciatore del Milan a dirigente.

GLI INIZI NELLE GIOVANILI ROSSONERE – «Io ho iniziato a 10 anni. Non era tardi, era esattamente il limite: sotto i 10 anni non potevi essere tesserato. Negli anni precedenti giocavi all’oratorio, ai giardinetti… Facevi tecnica in un’altra maniera. Poi dopo quando i miei figli hanno fatto le giovanili si poteva andare addirittura negli 8 con Christian e ai 6-7 con Daniel. Le regole sono cambiate».

QUANDO MIO PADRE ALLENAVA FUORI LO ABBIAMO SEGUITO? – «No, no, lui si è sempre spostato in maniera autonoma. Noi siamo sei fratelli, ho tre sorelle e due fratelli, eravamo tutti abbastanza piccoli. La carriera di allenatore è fatta di momenti, magari ti prendono a Parma e dopo sei mesi ti mandano via, non hai la certezza di rimanere e lungo e non conviene spostare la famiglia. Tra l’altro tutti andavamo a scuola e avevamo le nostre attività pomeridiane».

COSA MI PORTO DENTRO DEL MIO PADRE CALCIATORE – «Mio papà non l’ho mai visto giocare, l’ho visto dai filmati. Ha smesso nel ‘66/67 e io sono nato nel ’68. Quando si fanno paragoni tra le varie ere è difficile secondo me riuscire ad inserire un ragazzo che gioca negli anni 2000 negli anni ’60, e viceversa. Ho avuto la fortuna di iniziare negli anni ’80, dove c’era un certo tipo di educazione e di valori, che poi mi sono portato avanti per tutta la carriera. Poi la conoscenza della specificità della tecnica, della tattica e della preparazione fisica ha avuto negli anni un’evoluzione enorme. Grazie a Dio ho avuto grandissimo allenatori e preparatori che hanno aperto un pochino la strada anche ad una sorta di professionismo un pochino più di alto livello nel mondo del calcio. Nei primi anni non c’erano tanti video, l’unica possibilità era quella di essere trasmesso live sulla Rai o di giocare nella partita del mercoledì sera di Coppa dei Campioni. Non c’era internet, non c’era la possibilità di conoscere le caratteristiche degli avversari se non attraverso degli uomini della società che andavano a vedere le partite. Ma erano tutte cose raccontate. C’era meno conoscenza e meno strumenti per rendere quel tipo di sport più professionale come conoscenza».

SULLAVORO – «Senza saperlo mi sono fatto gli anticorpi, perché il fatto di non anche solamente il fatto di non fare niente durante l’estate, anche se mi dicevano devi lavorare, io non facevo niente e così facendo il mio corpo si sanava un pochino. Poi cosa facevo, ripartivo e nella pre stagione sapevo che avrei sofferto più degli altri ma lì sviluppavo la capacità di soffrire e comunque di reagire. Perché poi comunque dopo cinque giorni dovevo andare a giocare contro il Manchester ad esempio, e io non voglio perdere. Ho cercato a volte anche involontariamente delle contromisure a questi problemi che uno deve affrontare. Non c’era neanche tanta attenzione verso questo tipo di cose, tu eri un giocatore dovevi fare quello che ti dicevano e basta. Poi l’individualità del calciatore era un po’ sottomessa a quella che era l’importanza della squadra: io dico sempre che la squadra è più importante del calciatore singolo, ma le individualità difficilmente venivano fuori come vengono adesso».

LA FIGURA DEL PADRE ALLENATORE – «La cosa magari più fastidiosa era soprattutto quando uno è un ragazzo, quando andavo a giocare nei vari campi dell’hinterland milanese sinceramente sentivo quello che dicevano, quello ti dà fastidio. A me non fregava niente, io volevo giocare e divertirmi ma avevo già una pressione che non doveva esserci sinceramente. Poi lì dipende sempre dal tuo carattere puoi reagire in maniera positiva che ti impegni ancora di più o puoi anche mollare, sinceramente dipende molto molto da te. Quello sicuramente influisce sul tuo carattere perché ti fa diventare magari più riservato perché devi sei sempre attento a quello che gli altri dicono… poi grazie a Dio col tempo questa cosa passa. Io sono andato in U21 quando c’era mio papà, ma la gente non dice che mi aveva già chiamato Vicini nell’U21 quella di Vialli e Mancini. La stessa cosa in Nazionale, mio papà è arrivato in Nazionale quando io ero già capitano ed era già 10 anni che ci giocavo, quindi questa cosa era più giornalistica che basata su fatti reali».

L’ALTRA PARTE DELLE DICHIARAZIONI DI MALDINI.

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