Maldini a RUOTA LIBERA: «Vi racconto i miei anni al Milan».
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Maldini a RUOTA LIBERA: «Vi racconto i miei anni al Milan». Poi la stoccata a Cardinale

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L’ex dirigente e capitano del Milan, Paolo Maldini, racconta i suoi anni in rossonero e lancia la frecciatina a Cardinale

Intervenuto come ospita nel podcast AKOS, Paolo Maldini un fiume in piena: questi i suoi racconti e aneddoti sui suoi anni da calciatore e da dirigente del Milan. Non mancano i riferimenti alla proprietà di Cardinale, artefice del suo allontanamento.

CARRIERA AL MILAN – «Non lo considererei come un percorso monotono, ma anzi pieno di diciamo alti e bassi e pieno di soddisfazioni. Credo che la fortuna di un calciatore che gioca in una squadra sia quella di trovare un club che abbia le tue stesse ambizioni e che abbia comunque la possibilità di farti arrivare al tuo livello massimo. Io ho avuto la fortuna di avere oltre al talento una squadra che mirava ai massimi obiettivi: questo credo che sia stato il segreto numero uno per poter fare una carriera così lunga all’interno di un club».

UN ALTRO CALCIO – «Nei primi anni non c’erano tanti video tu andavi praticamente l’unica possibilità di essere trasmesso live sulla Rai, perché allora c’era la Rai, era quella di giocare il secondo tempo della partita di campionato scelta la Rai oppure la partita di Champions League che si chiamava Coppa dei Campioni il mercoledì sera. Tu non avevi la possibilità di conoscere le caratteristiche dell’avversario se non attraverso degli uomini della società che andavano a vedere le le partite, ma erano tutte cose raccontate. Io non credo che ci fosse meno professionalità, c’era meno conoscenza e meno strumenti per rendere quel tipo di sport più professionale, non come impegno ma proprio come conoscenza».

A 16 ANNI IN SERIE A COL MILAN – «Soprattutto in certe squadre, e il Milan era una di queste, gli anni di giovanili erano improntati sulla l’acquisizione di capacità tecniche, quindi si cercava di fare molta tecnica, pochissima tattica, poi lo sviluppo anche di certe situazioni che si incontravano in campo. Io ho iniziato giocando da ala destra e ala sinistra per poi dopo verso i 14 anni retrocedere a retrocedere a terzino destro. Praticamente l’ultima parte delle giovanili nella Primavera giocavo da terzino destro. Io credo che sia comunque uno schema che funziona ancora oggi, anche se si tende a dare più nozioni tattiche a ragazzi che sinceramente hanno bisogno di sviluppare tutt’altro».

LE GIOVANILI DI OGGI – «Hanno bisogno di sviluppare la tecnica, la capacità di scelta, quindi non essere indottrinati da allenatori che pensano di essere preparati ma alla fin fine sono molto meno visionari di ragazzi che hanno un talento che magari loro non hanno mai avuto. Di conseguenza io preparerei i ragazzi a un altro tipo di di calcio, non assolutamente tattico, perché poi la tattica ha un’evoluzione sempre nel tempo che più si va avanti e più è veloce: di conseguenza probabilmente li stai preparando a qualcosa che sarà già vecchio quando arriveranno in prima squadra. Certi principi di tecnica e di gioco rimarranno invece sempre attuali. Anche il lavoro fisico è diventato importante, e una preparazione dei ragazzi alla competizione con gli uomini a un certo punto della crescita va fatta. Dal mio punto di vista è impossibile cambiare l’attitudine e soprattutto la mentalità di un giocatore quando fai lo switch da adulto, perché sei abituato ormai a quello standard. Cambiare rotta è difficile».

L’IMPORTANZA DI LIEDHOLM – «Fondamentale perché era un allenatore moderno, giocavamo coi 4 difensori in linea senza seguire l’uomo già negli anni 80, pensava già ai giocatori col piede invertito. Io sono un destro naturale che si è adattato a giocare a sinistra, e la possibilità di andare all’interno mi apriva più il gioco. La sua visione e il suo coraggio di mandare in campo ragazzi giovani lo ha reso un precursore nel mondo del calcio. Lui ti diceva sempre di non dimenticare mai che il calcio è un gioco, e che bisogna giocare per divertirsi. Ed è una cosa che va ripetuta a tutti, dai ragazzi ai professionisti».

BERLUSCONI – «Milanello è stato costruito negli anni 60, il primo centro al mondo, e il Milan una delle prime squadre che ha creduto in un progetto simile: già ai tempi c’era l’idea di un luogo chiuso, isolato e dedicato. Quando è arrivato Berlusconi ha portato un’organizzazione aziendale che ha elevato tutto e tutti al massimo livello, sia dal punto di vista calcistico che da quello organizzativo e di rispetto dei ruoli. La sua prima scelta, quella di chiamare un visionario come Sacchi, ha aperto il mondo del calcio ad altri mondi: sono arrivati preparatori dall’atletica. Le varie conoscenze si sono unite».

SACCHI – «Sacchi faceva lavorare tantissimo fisicamente, ed è il segreto delle squadre vincenti: quando lavori più degli altri hai dei vantaggi. E siccome c’era meno conoscenza, credo di essere andato quasi sempre in over-training. Avevo 20 anni, pensandoci adesso non si conosceva l’importanza del riposo, del giorno di scarico: la tua testa era abituata a soffrire sempre, ma dal punto di vista fisico avevi alti e bassi. Spesso arrivavi in campo senza gamba: non è un caso aver vinto solo un campionato in 4 anni nell’era Sacchi, anche se eravamo focalizzati sulle coppe europee. Il numero di allenamenti era uguale, erano però più lunghi (2 ore, 2 ore e mezza) e l’intensità era al massimo, con due doppi allenamenti a settimana. Una cosa che adesso è rara. Era una sperimentazione, basata sul principio del lavoro, ma dal punto di vista fisico a volte non avevamo performance fisiche ottimali».

BARESI – «Franco ha smesso nel 95, una attenzione così spasmodica non c’era ancora ma Franco senza senza dubbio è stato un un grande esempio per me. Io avevo un carattere molto riservato e quindi era perfetto come lui si comportava dal mio punto di vista, poche parole tanti fatti. Ma così era Mauro Tassotti, con un carattere diverso, così erano tanti giocatori come Evani, Icardi. Diciamo che all’interno di quelle squadre c’erano giocatori molto divertenti, coi quali divertirti, e giocatori con una mentalità vincente: stava a te giovano capire quale gruppo seguire».

VAN BASTEN – «Franco ha smesso nel 95, una attenzione così spasmodica non c’era ancora ma Franco senza senza dubbio è stato un un grande esempio per me. Io avevo un carattere molto riservato e quindi era perfetto come lui si comportava dal mio punto di vista, poche parole tanti fatti. Ma così era Mauro Tassotti, con un carattere diverso, così erano tanti giocatori come Evani, Icardi. Diciamo che all’interno di quelle squadre c’erano giocatori molto divertenti, coi quali divertirti, e giocatori con una mentalità vincente: stava a te giovano capire quale gruppo seguire».

RONALDO IL FENOMENO – «Quello che aveva Ronaldo, che sinceramente non aveva quasi nessuno, o perlomeno quando aveva un giocatore aveva quel tipo di velocità di impatto fisico non aveva la tecnica di Ronaldo… sinceramente riusciva a fare determinate cose con una velocità che nessun altro aveva e quindi abbinava controllo fisico, velocità e forza a una tecnica che era sinceramente in quei 3-4 anni lì era straordinaria».

I PROBLEMI ALLE GINOCCHIA DI MALDINI – «Ho sempre avuto un pochino di fastidio ai rotulei, come poi i miei due figli sono cresciuto in un’estate, classica cosa che poi ti porti dietro porti dietro. Nell’82-83 c’erano pochi strumenti… Io ho iniziato a fare lavoro in palestra serio nel 98-99 quindi a 30 anni, prima la palestra mai toccata. Noi fino agli anni 2000 non abbiamo praticamente mai usato la palestra. Facevamo tutto con salite, discese, bosco, balzi. Poi naturalmente la conoscenza ci ha portato a capire: io a 30 anni mi sentivo come se mi mancasse benzina e nel momento che ho toccato la palestra, la forza sono esploso ancora fisicamente in maniera impressionante. I miei migliori anni a livello personale dal punto di vista tecnico e fisico sono stati nel 2002-2003 e 2003-2004, avevo 35 anni e sinceramente me la giocavo in velocità con qualsiasi giocatore dal punto di vista anche della tenuta… Il mio problema è stato aver giocato così tanti anni da professionista, avevo grandi esplosività, facevo delle grandi frenate, avevo una struttura muscolare molto forte e le mie caratteristiche erano quelle del velocista che inchioda e riparte. Questo sulle articolazioni non fa benissimo».

I CAMBI AL MILAN – «Ho iniziato con il Milan che aveva due massaggiatori, un dottore, avevamo più o meno 15 fasce riutilizzabili che si estendevano per chi aveva problemi alle caviglie. Io avevo molti problemi alle caviglie, avendo i piedi all’indentro e prendevo molte distorsioni, ma era un problema comune quindi capitava di prendere la fascia più brutta. Poi con Berlusconi sono arrivati i prodotti usa e getta, sono arrivati più massaggiatori, più dottori, altre figure professionali tipo lo psicologo o i preparatori: un gruppo di circa 15 persone. Adesso il gruppo dell’area medica è formato da circa 30-35 persone: 7-8 fisioterapisti, qualche consulente esterno, 2-3 medici che girano giustamente, non dico che sia esagerato, c’è grande attenzione sulla salute dei giocatori. Quasi ogni calciatore ha un fisioterapista o un dottore privato ma ci devono essere delle regole. Ci deve essere un lavoro di squadra».

CAPELLO E ANCELOTTI – «Se Sacchi è stato il peggiore di tutti, Capello e Ancelotti sono stati molto simili. C’è sempre da considerare le varie stagioni, cioè quando giochi la Champions League fino alla fine non hai praticamente mai tempo per riposare, quindi quello che cambia è forse la gestione del tempo libero. Dare importanza al riposo credo che si astata una cosa fondamentale soprattutto nell’era di Ancelotti. Il segreto, secondo me, è richiedere tanto, ma dare anche tanta libertà dopo: giorni liberi, dare la possibilità di recuperare. Mi hanno sempre chiesto cosa facessi io durante le vacanze, perché ti danno dei programmi da seguire, tra una stagione e un’altra. Credo che il calcio sia l’unico sport che si gioca per 11 mesi, a volte anche 11 mesi e mezzo. A dire la verità io non ho mai fatto niente perché il mio corpo necessitava di riposo».

LE DIFFERENZE CON L’NBA – «Innanzitutto ci sono state stagioni in cui ho avuto 5, 7, 8 o 9 giorni di vacanza, praticamente niente. Infatti si è saputo dopo che tutti quelli che dopo una stagione hanno avuto meno di 20 giorni di vacanza, si sono fatti male dopo un mese, un mese e mezzo e questo è un classico. Poi, a differenza dell’NBA, con tutto il rispetto, le partite sono sempre al coperto e quelle della regular season sono molto tranquille (i primi tre tempi gigioneggiano, poi vogliono vincere). I play-off sono un’altra cosa. Noi facevamo 5 giorni di allenamento, poi prendevamo l’aereo per gli Stati Uniti e andavamo a giocare contro il Real Madrid o i Manchester, con 80000 spettatori e 40 gradi, l’impatto di giocare all’esterno in inverno o in estate è pazzesco. Ci sono tante differenze, il problema è che i calcio va sempre più verso stagioni strapiene di appuntamenti e si richiede sempre il massimo spettacolo. È praticamente impossibile».

MALDINI DA DIRIGENTE – «Quando ho fatto il dirigente, avendo avuto 25 anni di esperienza e ricordando quello che ho provato nei momenti difficili che sono stati tanti, ho cercato di mettere a frutto questa esperienza e cercare di supportare quelli che sono ragazzi molto giovani. Ancora senza una struttura vera e propria per affrontare determinati pesi che ti porti dietro facendo questa professione. Si vede sempre la cosa bella, ma non si vede il punto di vista della pressione. Secondo me c’è ancora molto da lavorare lì ed è ancora un terreno inespresso, perché le tante proprietà straniere non conoscono bene l’argomento e non vogliono neanche affrontare quel tipo di problema perché non hanno neanche gli strumenti per poterlo fare. Sappiamo benissimo qual è l’importanza di un supporto, anche a livello morale ai giocatori, sia prima che dopo le partite che durante gli allenamenti, è anche importante vedere come si allenano per riuscire a capire con hi stiamo parlando. Dico sempre che sono cose non tangibili, ma che fanno le fortune dei club. E le cose non tangibili, difficilmente si possono spiegare in un foglio Excel ai nuovi proprietari, sono fuori dalla portata o dalla possibilità di controllo di un proprietario. Sembra che tu abbia una formula magica, ma non lo è, è qualcosa che ti ha portato ad avere successo se lo hai avuto. Successo non vuol dire solamente vincere, vuol dire anche cercare di fare il massimo delle tue possibilità».

ANEDDOTI – «Aneddoti ce ne sono tanti. Innanzitutto parlavamo prima di grandi calciatori, considero i due calciatori più forti mai affrontati da me proprio Ronaldo il brasiliano e Maradona per motivi abbastanza simili: tecnica, velocità, capacità di far gol, capacità di metterti in difficoltà e di stravolgere diciamo quelle che sono le tattiche della partita quindi quando arrivava la palla a loro potevi essere attento ma quando ti saltano due o tre uomini poi c’è poco da fare… Quello che aveva naturalmente Maradona era questa capacità di trascinare comunque un popolo, una squadra e una città verso qualcosa di straordinario: lo ha fatto a Napoli».

MARADONA E RONALDO – «Come con Ronaldo, era un giocatore che veniva picchiato molto, probabilmente in quegli anni lì ancora di più perché gli anni 80 erano molto più duri rispetto agli anni 90. Ma non ha mai reagito, non ha mai detto niente, non è mai andato veramente oltre quelle che erano le lamentele classiche, normali. Sinceramente questo lo ha reso anche nei confronti degli avversari un giocatore da rispettare sempre. Poi le sue capacità balistiche, tecniche, fisiche l’hanno reso quello che che poi è stato quindi uno dei tre migliori calciatori di sempre. Poi tra l’altro simpatico fuori dal campo e simpatico in campo nonostante le le botte che prendeva riusciva a fare la battuta sempre senza distogliere la sua attenzione da quello che era l’obiettivo, lui voleva vincere. Poi era un grande amante del pallone: la mia passione più grande è la palla e lui era amante della palla. Con tutti i suoi problemi perché poi è un ragazzo che ha avuto tanta pressione, tanti problemi di droga e che non è stato aiutato, che è stato abbandonato. La vita di questi personaggi qua è una vita molto solitaria perché non ti fidi più di nessuno, hai pochi amici veri e molte persone sono attorno a te per per sfruttarti. Questo è sempre il lato oscuro della carriera di un atleta di alto livello. Essere sempre al centro dell’attenzione è una cosa che non auguro a nessuno, perché ha dei lati positivi ma uno come Diego non poteva fare neanche un minuto di vacanza da solo e questa è una cosa che sinceramente determina tanti meccanismi che poi ti portano ad avere grossi problemi».

LA NOTORIETÀ – «Io di mio sono comunque riservato, la notorietà va accettata ma la vedo quasi come una un effetto collaterale della mia carriera. Dopo il mondiale 90 che il mondiale è veramente il punto massimo visto che è stato giocato in Italia, ho deciso di andare in vacanza negli Stati Uniti e dal 1990 faccio le vacanze negli Stati Uniti. Era diventato veramente difficile per me godermi quei 15 giorni di tranquillità senza parlare di calcio. Il calcio è però quello mi ha permesso di girare mondo, di imparare l’inglese, di vedere cose nuove e di conoscere persone nuove ed è stata comunque un’opportunità quindi. Le cose non succedono perché uno ha comunque l’idea di provare cose nuove. La notorietà ha un prezzo, soprattutto a quel livello lì».

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